Filosofia&Animali. I gatti, filosofi per eccellenza: pragmatici, eleganti e introspettivi

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“Gli artisti, i ribelli e gli introversi preferiscono i gatti; i soldati, gli estroversi e gli autoritari preferiscono i cani”. (Jean Jacques Rousseau)

Perché i filosofi parlano di fascino, e di mistero, dei gatti? Quale filosofia si nasconde dietro la loro esistenza? Forse quella dell’immagine della libertà e dell’indipendenza che ha ispirato molti poeti e filosofi?

Per chi ama i gatti, la domanda che si potrebbe porre è se esista una filosofia a cui attingere da questi animali domestici, che spesso diventano per noi veri compagni di vita. Possono quindi emergere i quesiti che si sono posti molti scrittori e filosofi su cosa si possa imparare da un gatto come pratica di vita o cosa possa rivelarci il nostro gatto che nessun filosofo può insegnarci.

Nell’antichità, in Grecia, il gatto era chiamato “ailouros”, come l’animale che agita la coda, simbolo di libertà nel senso di desiderio della vita e che non mira a ottenere potere sugli altri. Già Erodoto narrava della venerazione del gatto nella civiltà egizia che lo aveva elevato agli onori di animale sacro.

Decaduti nel medioevo e con la cristianità, che li aveva identificati come animali demoniaci al servizio della stregoneria, i gatti furono vittime di persecuzioni e superstizioni destinate a durare nel tempo.

Solo nel XIX secolo e con l’inizio della cultura moderna il felino ritornò ad essere considerato un animale da compagnia per l’uomo, intelligente ed elegante.

Il filosofo del Novecento Piero Martinetti, uno dei pochi rinunciatari alla sua cattedra universitaria milanese – per non sottostare alle imposizioni fasciste nel ventennio – ha cercato, invece, una risposta al misterioso fascino e comportamento dei gatti attraverso i loro sguardi.

Lo sguardo, come possibile chiave di comunicazione tra animali non umani e uomini, per Martinetti assume nei gatti un’eloquenza ammaliatrice capace di dire molte cose.

Dei tanti gatti che in anni assai difficili gli tennero compagnia, Martinetti ha conservato la memoria in carte private, dedicando a Minolino, Pasqualino, Morin e Grisetto annotazioni diaristiche simili a piccoli epitaffi.

Della gattina grigia morta di malattia nel dicembre 1926 scrive che era «così giovane, graziosa e gentile» e che la morte l’ha relegata ad un «passato che non torna».

Da queste considerazioni, e dal suo amore per questi animali, Martinetti fa emergere, in forma più filosofica, il riflesso del mistero dell’incomunicabilità che accomuna tutti gli esseri viventi, convinto che ogni essere e specie ha la sua anima e il suo mondo interiore con pari dignità nei confronti dell’uomo.

Per me i gatti sono un concentrato di saggezza, dolcezza e bellezza. Incarnano la figura di filosofi per eccellenza, cultori dell’utile, solitari, misteriosi, introspettivi.

Filosofi, scienziati, teologi, gente comune, da sempre si pongono delle domande: gli animali hanno un’anima? Perché non parlano con noi? Secondo Plutarco, Pitagora, Anassagora, Talete, Empedocle, e molti altri pensatori nel corso dei millenni, ogni essere vivente è fatto di materia e anche di spirito imperituro (anima).

Giordano Bruno affermava che ciò che differenzia l’anima dell’uomo da quella dell’animale è la quantità e non la qualità. Del resto, chiunque abbia vissuto con un cane o con un gatto, come con qualsiasi altra bestiola, osservandone gli occhi teneri e profondi, si sarà accorto che non si tratta di peluche, ma di esseri che pensano, provano dei sentimenti, amano, si deprimono, gioiscono. Proprio di questo mi rendo conto tutti i giorni con Sofia il mio cane, un Labrador femmina.

Secondo me, loro comunicano con noi, ovviamente non utilizzando il nostro linguaggio. La comunicazione che s’instaura con un animale utilizza un canale non linguistico speciale improntato su naturalezza e semplicità: strofinamenti, carezze, gioco, sguardo negli occhi, che permettono un momento di opportuna distensione.

A questo punto mi chiedo: “Che cosa differenzia allora, l’animale dall’uomo?”

Nell’uomo c’è “l’Io”, che non troviamo nell’animale. L’Io è la parte spirituale dell’essere umano, la scintilla che rende possibile l’autocoscienza e conferisce all’uomo la possibilità di scegliere tra bene e male. 

L’animale non può che seguire – per sua natura – i suoi impulsi, i suoi desideri, il suo istinto; l’essere umano può andare oltre a tutto questo… Inoltre ritengo che l’Io che troviamo nell’uomo, spesso lo porta ad una forma smisurata di “egoismo” che nella scelta tra bene e male gli fa scegliere il bene è vero, ma il bene che ricade su se stesso!

È vero che l’animale segue il suo istinto, ma io mi chiedo “cosa spinge, per esempio, un cane a lasciarsi morire se il suo padrone lo abbandona?” L’istinto della sopravvivenza dovrebbe spronarlo a fare qualsiasi cosa per evitare la sua fine… ma tante storie ci hanno dimostrato il contrario!

Sarebbe capace un essere umano di dare tutto se stesso per il bene di un’altro essere umano? Forse sì, e penso che forse lo potrebbe fare proprio per istinto, come un animale, ma spesso la ragione fa da protagonista e allora la scelta si orienta inesorabilmente “sul male minore”.

“Quando gioco con il mio gatto, chi può dire se egli non si diverte con me più di quanto io mi diverta con lui?” (Michel Eyquem De Montaigne)

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