Pare che proprio in questi giorni la Cina abbia oscurato le pagine di Wikipedia, in vista del 30º anniversario delle proteste di Piazza Tienammen. Non è una novità: tutti gli anni, in vista della ricorrenza, il governo cinese tenta il blocco dei siti che trattano l’argomento. Per evitare che qualche anima innocente possa lasciarsi condizionare dal racconto di quella vicenda, meglio fare in modo che non conosca la storia. Così, lasciato nell’ignoranza, il cittadino accetterà di miglior grado la mancanza di libertà.
La filosofia, in quanto amore e ricerca del sapere, ha sempre in qualche modo affermato la tesi secondo la quale solo nello sforzo di conoscere si è veramente liberi. C’è però una sfumatura molto importante che vale la pena segnalare quando si parla del rapporto tra libertà e conoscenza: una differenza tra come gli antichi consideravano questo rapporto e come invece lo considerano i moderni.
Secondo Platone, lo sforzo di conoscere ci rende liberi dalle catene dell’ignoranza e della schiavitù. Conoscere, cioè raggiungere con il pensiero la verità che sta oltre le apparenze, è il bene più prezioso. Solo il raggiungimento di questo bene ci rende liberi. In questo tipo di ragionamento, il male è l’ignoranza e l’ignoranza è mancanza di libertà. Ma questo significa che se io compio il male, non è perché voglio davvero il male, ma perché sono ignorante, non ho raggiunto la verità, non sono libero. Solo chi è veramente libero compie il bene, ma per volere il bene bisogna conoscerlo. Non c’è libertà senza conoscenza.
È l’impostazione cristiana a modificare, almeno in parte, questa idea greca, affermando che Dio ci ha creati e voluti liberi, al di là del livello di conoscenza che abbiamo raggiunto. Liberi anche di sbagliare, anche di commettere errori, anche di non conoscere. Si chiama libero arbitrio: la possibilità di scelta. Per la verità, i filosofi cristiani hanno dato spazio ad entrambi i concetti per secoli, chiamando il libero arbitrio libertas minor, cioè la possibilità di scegliere, di non essere obbligati o necessitati dal fato o dalla natura o da qualche altra forza esterna a fare, o pensare, qualche cosa che non dipenda da noi; e libertas maior la libertà “alla greca”, quella che scaturisce dalla conoscenza e dalla fede in Dio.
E, per dirla tutta, per secoli le autorità religiose hanno punito l’esercizio della libertas minor tutte le volte che individui o comunità assumessero idee o posizioni diverse da quelle compatibili con la dottrina. Per questo, almeno nella cultura europea, possiamo dire che solo con l’Illuminismo (1700 circa) si afferma una concezione della libertà più radicale e moderna: quella secondo la quale abbiamo diritto a pensarla come vogliamo, e nessuno ha diritto ad imporre la propria opinione agli altri.
Da Pierre Bayle in Francia a fine ‘600 a John Stuart Mill in Inghilterra nella prima metà dell’Ottocento, si susseguiranno moltissimi filosofi e pensatori, ma anche scrittori, uomini politici, ricercatori, a sostenere che la fonte di tutte le libertà, la più profonda di tutte e l’origine di ogni altro valore è la libertà di coscienza.
Da questa centralità della libertà nel mondo moderno sono maturati anche frutti problematici: l’individualismo più estremo, la scarsa propensione ad ascoltare chi ne sa più di noi in qualche materia, il narcisismo, e pure la scarsa capacità di comprendere dove sta il limite, dove devo fermarmi, quando la mia libertà finisce e inizia qualla altrui.
Il sentiero della libertà è in effetti un sentiero stretto. Pone alcune domande che non smettono di interrogarci. Possiamo davvero dirci liberi di scegliere? Quali sono i fattori che condizionano gli umani nel compiere le loro scelte? Quali sono i limiti della nostra libertà? Come capire quando sto raggiungendo quei limiti?
Paolo Furia