Sul giornalismo che funge da accusa, collegio giudicante e Corte Suprema…

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La Stampa del 23 gennaio. Vi compare un articolo in cui si legge: “Sono stati i tentativi di interferire dell’ormai ex Direttore generale dell’ASL Gianni Bonelli a rendere difficile l’indagine dei carabinieri…”. La vicenda è nota: l’indagine riguarda alcuni medici del reparto di Urologia dell’Ospedale di Biella indagati per omicidio colposo.

Quello che mi colpisce, però, non è l’accusa che dovrà essere provata e che finirà forse come una grande percentuale dei procedimenti penali di questi ultimi anni, cioè con una assoluzione con formula piena. Quello che mi turba è la sentenza emessa dal collega che funge da accusa, da collegio giudicante e anche da Corte Suprema visto che la sua affermazione è senza appello.
Secondo La Stampa, Bonelli ha interferito nelle indagini, quindi si è reso responsabile di un reato, e anche grave. Peccato però che, fino a prova contraria, la Procura di Biella la pensi diversamente visto che il dottor Bonelli, allo stato, non risulterebbe indagato per il medesimo reato, quello cioè di aver ostacolato la Giustizia.
Non serve dire che questo tipo di giornalismo non è forse quello maggioritario, non basta prendere le distanze, pronunciare i soliti “mantra” sul diritto di informazione, ammesso che questa sia informazione. Non serve neppure chiedersi da dove sia stata tratta la notizia che poi, fino a prova contraria, non è neppure una notizia visto che sembrerebbe più lo sfogo di qualche inquirente che esprime una valutazione magari in totale buonafede. Un’esternazione appunto, un “gossip” come si dice oggi con orrendo anglicismo, non una notizia.
Non conosco Gianni Bonelli neppure di vista. Conosco però l’articolo 268 del nostro codice di procedura penale che vieta persino la trascrizione delle intercettazioni irrilevanti per le indagini. Prima di divenire avvocato e professore universitario ho fatto, commettendo tanti errori, il giornalista a tempo pieno sino ad arrivare alla non invidiabile posizione di caporedattore di una testata locale che oggi non esiste più. So della difficoltà di approfondire un tema in poche ore, di rendere semplice e comprensibile una notizia complessa. So anche, per aver cercato di farlo io stesso, che la maggior parte di noi cerca con scrupolo di fare il proprio dovere e so anche che alcuni di noi, per lo più schierati politicamente come non è questa testata, imbastiscono alle volte processi mediatici indegni della categoria.
È ora, però, che noi giornalisti iniziamo una seria autocritica di un certo modo di lavorare. Mi ha colpito molto l’intervista di un notissimo giornalista a fine carriera di qualche mese fa che, alla domanda se, guardando indietro si rimproverasse qualcosa, ha risposto più o meno così: “Vedendo quanti accusati sono stati assolti nel successivo processo, sarei stato più prudente nel dare la notizia della loro incriminazione, avrei oggi più rispetto”.
Ecco, il rispetto per la dignità umana, il lusso di avere dei dubbi, la coscienza che il male che facciamo con una notizia anche solo affrettata, quando non infondata, è irreparabile perché il dubbio, anche dopo una assoluzione totale, resta nella mente di tutti noi come un tarlo, “con tutto quello che ho letto sui giornali, visto in televisione, ascoltato alla radio, sarà stato veramente innocente o non piuttosto abile nel far sparire le prove?”
Perché, come disse il filosofo Francesco Bacone nel suo de Dignitate: “Calunnia senza timore, qualcosa resterà”. Appunto, la dignità lesa di chi subisce un’accusa divulgata senza processo, ma anche la dignità della nostra professione che ci impone regole che, prima che fissate da norme, devono essere vissute nell’intimo.

Massimo Maria Tucci

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